Dopo la croce e il pugnale
Dopo la croce e il pugnale

Dopo la croce e il pugnale

 
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David Wilkerson, incoraggiato dalla accoglienza del pubblico al suo volume LA CROCE E IL PUGNALE, del quale sono state vendute oltre undici milioni di copie, ha deciso di scriverne una continuazione: e così è nato il presente volume, DOPO LA CROCE E IL PUGNALE. Semplice, ingenuo Pastore di campagna, David Wilkerson era arrivato a New York verso la fine del decennio 1950, per operare la diffusione della parola del Signore nei bassi fondi, fra i drogati e i delinquenti. Dal suo ministero trasse origine Teen Challenge, un'organizzazione cristiana per l'assistenza a delinquenti, drogati e altri giovani traviati, che ha ormai diramazioni nelle grandi metropoli del mondo. Oltre a dirigere queste attività, Wilkerson è celebre come oratore e come esperto sui problemi della giovane generazione e delle profonde inquietudini dalle quali essa è oggi afflitta.
ISBN: 9788880770640
Produttore: Editrice Uomini Nuovi
Codice prodotto: 9788880770640
Lingua: Italiano

Capitolo gratuito

1

Avete un luogo segreto dove potete far conto
di incontrare il Signore?

IL LUOGO DELL’APPUNTAMENTO

Siamo in luglio del 1972 e il volo attraverso l’Atlantico si è svolto senza incidenti. Neanche un tentativo di dirottamento. Ad ogni modo tutti e dodici noi della squadra del World Challenge, di base a Dallas, nel Texas, siamo euforici. Perché stiamo ritornando a casa.
Avevamo passato quattro settimane in Europa, tenendo venti diversi raduni serali. Quanto spesso in questo tempo ringraziammo il Signore per i quattro giorni di viaggio con i quali risalimmo il Reno: altrimenti, francamente, non credo che avremmo trovato la forza necessaria. Le folle che si radunarono erano molto maggiori di quelle che avevamo previsto: otto, dieci, dodicimila persone per volta. Erano tutte venute a sentire lo “sparuto predicatore di campagna” David Wilkerson, la cui storia sembrava avessero letta nel libro La croce e il pugnale. Questo all’infuori di Helsinki, in Finlandia, dove agli studenti era stato detto che ero un agente della CIA inviato a propagandare in Europa l’accettazione del punto di vista del signor Nixon a proposito della guerra in Vietnam. Eccezione fatta per questa sola situazione le folle ci accolsero cordialmente e centinaia e centinaia di giovani dettero le loro vite al Signore; in generale avevamo una sensazione di successo. Anche quando Gwen improvvisamente si piegò su sé stessa per un acuto dolore e dovette essere portata fuori dell’aeroplano su una barella, sapevamo di aver vinto. Perché ignorammo la voce sussurrante che diceva: “Questo è il cancro di Gwen che ritorna”. Invece pregammo per una guarigione immediata. Gwen uscì dall’ospedale il giorno dopo, sentendosi benissimo.
Anch’io avevo conquistato un piccola vittoria sulla mia paura di volare. Quanto meno salii a bordo; e questo era già qualche cosa. Come dovetti lottare contro la mia paura in questo viaggio! Tutti soffrivano con me quando le mie palme incominciavano a sudare prima della partenza e le mie nocche diventavano bianche mentre mi afferravo strettamente ai braccioli del sedile.
Tuttavia in un modo o nell’altro riuscirono a far attraversare l’Atlantico a quel gigantesco 747 e finalmente stavamo sorvolando l’Aeroporto Kennedy. Sotto di noi c’era New York con i suoi otto milioni di abitanti, il suo impossibile affollamento, la sua sporcizia, i suoi ghetti e i suoi conflitti razziali. Fu un contrasto rispetto all’Olanda, la Svizzera, la Norvegia e la Finlandia dove i governi sembra abbiano tolto tanti rischi dalla vita: niente ghetti, niente quartieri miserabili, niente preoccupazioni circa le spese mediche, nessun problema per il ricovero dei vecchi.
Certo non potevamo dire lo stesso dell’America. Il Paese al quale ritornavamo pullulava di problemi. Tuttavia sapevamo che era qui che dovevamo vivere, eravamo stati chiamati a lavorare qui, con la gente dei bassifondi e con quella della periferia, con la gente che soffriva.
Venendo dall’aeroporto, Gwen e io viaggiavamo sull’automobile con Edgar Palser, il pastore della nostra nuova chiesa a Dallas. Edgar e sua moglie Sarah erano venuti in Europa con noi, avevano trascorso pochissimo tempo a New York e sgranarono gli occhi quando uscimmo dall’autostrada e ci immergemmo nello stesso bubbone al quale un’ora prima avevamo diretto gli sguardi dal finestrino del 747.
Edgar e Sarah non sapevano quanto io fossi eccitato dal mio ritorno a New York. Attraverso gli anni ho sviluppato l’abitudine di visitare quelli che io chiamo i miei luoghi d’appuntamento, dove nel passato ho incontrato il Signore e dove ritorno in tempi di necessità, fiducioso che ve lo ritroverò di nuovo. Nei posti c’è una strana forza. Questa deve essere una delle ragioni principali per le quali la Bibbia dà una funzione così importante agli altari e ai Santuari e a certe particolari montagne, perché d’istinto siamo riportati al luogo dove una volta abbiamo incontrato Dio, fiduciosi che vi potremo rinnovare l’appuntamento.
In uno strano modo una particolare casa in Bedford-Stuyvesant, Brooklyn, era per me proprio uno di questi luoghi. Strano che io potessi avere un luogo d’appuntamento in Bedford-Stuyvesant, dove si dice che vi siano più omicidi per metro quadrato che in qualsiasi altro luogo del mondo. Ma in questo rifugio di brutture avevo incontrato molte volte il Signore. Lo avevo incontrato mentre stavamo insieme a fianco di un drogato che urlava cercando di abbandonare l’eroina; o quando insieme guardammo negli occhi di un ragazzo nero spaventato che non osava lasciare il suo isolato perché era quello il suo campo; o fissando il volto di una ragazza che si era appena inginocchiata a un angolo di strada per rendere l’anima.
Ora sapevo che dovevo ritornare a Bedford-Stuyvesant come luogo d’appuntamento per un problema che mi trovavo di fronte. Attraverso gli anni il nostro lavoro ci aveva portati sempre più lontani dalla città di New York. La nostra parrocchia era diventata con il tempo non una sola città ma l’intera regione, città e suburbio, fattoria e villaggio. Poiché era un luogo più centrale, avevamo anche spostato il nostro quartier generale a Dallas, nel Texas.
Il Teen Challenge di New York era ora soltanto una parte del lavoro complessivo del World Challenge.
Tuttavia ero ancora preoccupato per New York. Non passava giorno senza una mia profonda intercessione per la città. Appena pochi minuti prima, mentre sorvolavamo il Kennedy e io guardavo in giù alla bruttura che si distendeva sotto di me, mi accorsi che stavo pregando il Signore di incontrarsi di nuovo con me nel nostro vecchio luogo d’appuntamento con una parola d’incoraggiamento, o di correzione, circa il passo che avevamo fatto trasferendoci in una parrocchia più grande. “Che dire della città? Signore?” avevo detto. “Che dire di New York? Credo di averTi sentito dirmi di lasciare il lavoro qui ad altri, ora. Ma vorrei una parola nuova”.
Ora, mentre Gwen e io viaggiavamo con Edgar e Sarah, tentai di parlar loro di New York, indicando punti caratteristici che mi erano tanto ben noti dai miei giorni di lavoro nelle strade di Brooklyn. Vi era la scuola pubblica No. 67 a Fort Greene, dove avevo predicato per la prima volta a Nicky e Israele. Gli occhi vivaci di Edgar guardavano intorno, inquisitori. Luoghi che conosceva bene dal libro balzavano vivi dinanzi a lui. Anch’io guardandoli diventai taciturno.
Edgar interruppe la mia reverie. “David”, disse, “prima di partire per questo viaggio chiesi al Signore di farmi vedere qualche progetto in cui la nostra chiesa potesse essere di aiuto. Voglio dire, il tuo lavoro a New York fiorisce finanziariamente...” (su questo punto avrei voluto ridere sotto i baffi, ma non lo feci e non dissi nulla) “...così, se me lo permetti, non penso che dovremmo cercare di aiutare Teen Challenge. E’ un altro lavoro che vogliamo. Pregai il Signore di farmi vedere che cosa avesse in mente”.
Così non passammo troppo tempo a Teen Challenge. Gwen e io ci limitammo a fare con Edgar e Sarah una breve visita a 416 Clinton Avenue, dove tutto era incominciato, mostrandogli le camere dove a tutt’oggi i ragazzi attraversano l’angoscia della sospensione della droga. Mostrammo loro gli edifici vicini che il Signore ci aveva dato per il nostro lavoro dopo la fine del volume La croce e il pugnale. Li accompagnai a conoscere mio fratello Don che manda avanti le cose nella zona di New York e mia madre che ha ancora il suo lavoro fra i giovani del Greenwich Village. E finalmente visitammo la camera dove avevamo letto l’espresso di W. Clement Stone con la grande notizia che ci avrebbe donato del denaro per aiutarci a lanciare il nostro lavoro su piano nazionale.
Domandai a Edgar se ci fosse qualche altra cosa che avrebbe desiderato vedere.
“Sì. Possiamo visitare uno dei posti dove i ragazzi si iniettavano la droga?” domandò Edgar.
Sapevo benissimo dove avremmo dovuto andare. Tutti e quattro entrammo nell’automobile e ritornammo indietro verso la Seconda Avenue. Mentre stavamo ancora viaggiando dissi: “Togliti il portafoglio Edgar, i nostri portafogli e le borse di Sarah e Gwen si mettono sotto il sedile”. I Palser mi guardarono sorpresi. “Non vale la pena di andare in cerca di guai”, dissi.
Uscimmo fuori, chiudemmo a chiave accuratamente l’automobile e ci avviammo lungo la Seconda Avenue. “Voi camminate tra noi”, dissi a Sarah e a Gwen, domandandomi come avrei dovuto dire quello che avevo bisogno di dire senza apparire drammatico. “Prova a far finta di essere un ispettore delle costruzioni o qualcosa di simile. Non sei qui per incanaglirti. Così è facile che ci lasceranno tranquilli”.
Feci questi commenti perché in più di una occasione la gente venuta a Bedford-Stuyvesant per percorrere le strade che io avevo percorso era stata assalita. Continuammo discendendo questo viale a me così familiare fino a che giungemmo a un edificio che conoscevo molto bene. Ivi mi fermai.
“Questo è un posto dove ho veduto i ragazzi iniettarsi la droga”, dissi.
E lì, vicino a un mucchio di immondizie accumulate di fronte all’edificio, raccontai ai Palser di quando avevo incontrato in quello stesso posto cinque ragazzi delle bande. Ciondolavano appoggiati proprio a quella staccionata quando venni io, il predicatore novellino. Un ragazzo mi riconobbe dalle fotografie sui giornali che erano state pubblicate perché avevo tentato di aiutare alcuni componenti delle bande e mi ero trovato io stesso nei pasticci con le autorità. “Ah, qui c’è il predicatore che si è fatto cacciare a calci dal Tribunale”, disse uno dei ragazzi.
Gli altri sembravano piuttosto interessati. Fecero un po’ più di attenzione e commentarono a proposito della Bibbia che portavo con me: “Avete qualche cosa per noi lì dentro, pastore?” E così avevo incominciato a parlare con loro. Dissi loro molto semplicemente che erano amati così com’erano. Proprio allora, proprio lì.
Ma i ragazzi si stavano addormentando. I loro occhi si chiudevano e sembravano annoiati. Ciò mi fece arrabbiare e mi arrischiai: ne scossi uno seccamente per le spalle. “Che succede, come mai vi addormentate?”
“Uomo, ma non lo sai? Siamo drogati”.
“Non ti preoccupare”, disse Shorty. “Non è uno della narcotici, è dell’alleluia”.
Così riprendemmo a parlare. Alla fine Shorty e i suoi amici si offrirono di farmi fare un viaggetto con loro: avrei potuto osservarli mentre si bucavano. Be’, questo non lo volevo. In primo luogo sarebbe stato contro la Legge, ma soprattutto avrebbe significato vedere un ragazzo che faceva una cosa che avrebbe potuto ucciderlo. D’altra parte, se volevo in un modo o nell’altro raggiungere questi ragazzi dovevo pur scoprire che genere di vita facevano.
Così alla fine accettai. Percorremmo un buio andito puzzolente di urina, ci arrampicammo per sei piani di scale fino alla soffitta e spalancammo a calci una porta fracassata. Lì, dietro un parapetto, Shorty tirò fuori una vecchia bottiglia da Coca Cola piena di acqua sporca. Uscì quindi i suoi attrezzi: una capsula da bottiglia di metallo e un fiammifero, un pezzo di tubo di gomma e una siringa. Immerse l’ago nell’acqua sporca.
“Perché fai questo?” chiesi.
“Sto sterilizzando l’ago, non lo vedi?”
Shorty prese dal nastro del suo cappello una bustina trasparente piena di polvere bianca e ne versò il contenuto nella capsula, riscaldò il miscuglio, lo aspirò nell’ago, avvolse il tubo intorno al braccio fino a che la sua vena si gonfiò e quindi iniettò la droga direttamente nella vena.
Gli occhi di Shorty erano gialli, gialla la sua pelle. Era itterico. Quell’ago infetto, estratto dalla sua vena, fu immediatamente immerso di nuovo nella vena del ragazzo successivo. E poi nella vena di un altro. Quando un terzo ragazzo si iniettò, svenni.
La prossima cosa che ricordo è che qualcuno mi schiaffeggiava. “Ma che c’è pastore, hai fifa?” Mi alzai a sedere. Mi resi conto di dove mi trovavo e di quello che stava succedendo.
“Fifa, sì. Sì, ho fifa. Shorty ha l’itterizia, non lo vedete? Con quell’ago tutti voi prenderete l’epatite”.
“Non è per questo che sei svenuto, uomo. E’ semplicemente che ti ha impressionato vedere il posto dove ci facciamo. Non lo sai, l’epatite non ci spaventa. Per noi non c’è speranza all’infuori di un overdose”.
Lì, sulla cima del tetto, accoccolato dietro il parapetto fra il catrame e la sporcizia, feci una preghiera ben chiara: “Signore, ti prometto che non predicherò più il messaggio della salvezza fino a che non riuscirò a dimostrare che c’è una possibilità di portare aiuto qui, proprio in questa situazione. O abbiamo qualche cosa da dire o non l’abbiamo. Mostramela, Signore Gesù. Mostramela”.
Ciò era accaduto tanto tempo prima. Quindici anni. Il lavoro con i drogati era nato da quella preghiera. Spesso, in tempi di disperazione, ritornavo a quel luogo di appuntamento per rinfrancarmi. Ora, in questo caldo giorno d’estate, di fronte allo stesso edificio con Edgar e Sarah Palser, Gwen e io salimmo i gradini di pietra nell’atrio di quel decrepito edificio del ghetto. Mi sembrava che nulla fosse cambiato. C’era ancora la puzza di urina. Le finestre erano ancora rotte. C’era ancora la sostanza appiccicosa sulle pareti dove i ragazzi avevano scosso le bottiglie di gazzosa e l’avevano fatta schizzare. C’erano ancora le oscenità scritte sul legno. C’erano ancora le voci rauche che discutevano dietro le porte chiuse e senza dubbio ben sbarrate.
Salimmo per i sei piani di scale, ansimando nel caldo. C’era lo stesso tetto, la stessa porta fracassata. La aprimmo con un calcio e ci trovammo nello stesso posto riparato dal parapetto dove Shorty e i suoi amici avevano “sterilizzato” i loro aghi in una bottiglia da Coca Cola piena d’acqua sporca. Stavamo rievocando la preghiera che avevo espresso tanto tempo prima in questo singolare luogo d’appuntamento, dove avevo una volta domandato aiuto al Signore. Improvvisamente vi fu un rumore dietro di noi e fuori della tromba delle scale comparve un negro.
“Che cosa state facendo voi sul mio tetto?”
La sua domanda non era particolarmente ostile, semplicemente incerta e curiosa. Mi presentai, presentai mia moglie e i Palser e gli dissi come quindici anni prima avessi proprio su questo tetto dedicato la mia vita a lavorare per i ragazzi nei guai.
“Non volete dire con questo che siete l’uomo del Teen Challenge?” chiese il grosso uomo.
“E’ qui che tutto è incominciato?”.
“Nella mia casa? Ma guarda un po’! Io sono il padrone”.
E quindi egli procedette a dirci come stesse cercando di agire secondo il messaggio del Vangelo nel suo modo tutto speciale comprando vecchi edifici e trasformandoli in case decenti. “Nella maggior parte dei casi non funziona”, aggiunse il padrone. “Ma ho una cosa buona che va avanti. Venite e ve la farò vedere”.
Quell’uomo voluminoso si aprì la strada per le scale luride. Mentre scendevamo due piccole disastrose esperienze ci spiegarono perché aveva detto che il suo esperimento non funzionava. Mentre passavamo sotto una finestra un grosso sacco di immondizia ne volò fuori. Cadde nel cortile al di sotto. “Ecco!” disse il padrone. “Non posso neanche assumere questa gente perché pulisca”. Peggio ancora: mentre arrivavamo al terzo piano incontrammo due bambini. Dovevano avere dieci o dodici anni. Stavano nell’angolo con le maniche tirate su e stavano punzecchiandosi le vene con stuzzicadenti, come se si bucassero. Quando ci videro, incominciarono a ciondolare le teste come se stessero dondolando.
“Fuori, voi due!” strillò il padrone di casa. Si voltò verso di noi come a scusarsi. “Vedete quello che intendo dire? Che cosa posso farci? Cercano di essere come i loro fratelli maggiori”.
Potevo udire i singhiozzi soffocati dalla moglie di Edgar mentre continuavamo a seguire la nostra guida nello scantinato.
Per giungere allo scantinato di questa casa del ghetto, dovevamo prima uscire, girare intorno alla cancellata e scendere una serie di gradini di pietra. La prima cosa che osservai fu che i gradini erano molto puliti e ben lavati. Quindi il nostro ospite bussò alla porta e comparve il volto di un portoricano di media età.
“Fernando”, disse il padrone, “possiamo entrare?”
Il portoricano spalancò la porta e arretrò. “Sia lodato il Signore!” disse mentre entravamo. Seppi subito che ci trovavamo in un luogo santo. C’erano sei brandine nella stanza, sul vecchio intonaco erano state cementate tavelle da soffitto: erano state disposte di traverso. Le mura erano state dipinte di fresco, un lavoro da dilettante. Sulle pareti erano appiccicati segni scritti a mano con le parole disposte in modo irregolare: una diceva NON ILLUDERTI! NON SEI SOLO. Vi era qualche cosa di dilettantesco nella stanza che mi fece capire che questo per Fernando e gli altri, chiunque fossero, che dormivano su quelle brandine, era terreno consacrato.
Il padrone ci presentò e quindi raccontò un po’ della storia di Fernando: incredibilmente, l’uomo era stato per trentacinque anni dipendente dall’eroina e per la maggior parte di questo tempo si era iniettato la droga direttamente nelle vene. Non credevo che fosse possibile! La sua mania per la droga gli era costata la sua famiglia; la moglie lo aveva abbandonato, i bambini non volevano aver nulla a che fare con lui. Gli era costato il suo posto di lavoro, il suo rispetto di sé stesso, la sua salute. Ma poi, un giorno, Fernando era incappato in una delle nostre riunioni stradali del Teen Challenge. Proprio lì sulla strada, affidò a Dio la sua vita e sperimentò uno di quei miracoli che sempre mi incoraggiano: Fernando, drogato da trentacinque anni, con l’aiuto di Dio riuscì a scacciare il suo vizio. Con il tempo Teen Challenge lo aveva assunto come uomo di fatica. Gli pagavano cinquanta dollari la settimana.
“Ed è qui che comincia veramente la storia”, disse il padrone, sorridendo a Fernando. “E’ stata una cosa proprio grandiosa. Venne da me perché sapeva che stavo cercando di aiutare la mia gente e mi chiese se potesse avere gratis questo scantinato per tre anni. Allora gli chiesi: ‘Perché?’ ed egli mi disse che voleva trasformare questo posto in un centro di riabilitazione dell’isolato, dedicato esclusivamente ai ragazzi di questo solo isolato, vedete? Così gli dissi sicuro, perché no. E Fernando incominciò a chiedere delle offerte. Solo che più del novanta per cento era per il Signore e il dieci per cento per sé stesso. Ed ecco quello che ha fatto!” Il padrone, quindi, con un ampio movimento del suo grosso braccio descrisse un giro intorno alla camera. Lo vidi anch’io con i suoi occhi, come un posto da ammirare.
“E la nostra gente del Teen Challenge sa di questo lavoro?” gli chiesi.
“No, volevo prima che si avviasse. Ho portato al Signore quattro giovani, qui. Ora sono puliti e vivono qui. Ma a dirvi la verità, fratello Dave, certe volte mi domando come potrò andare avanti. Questi giovani non dovrebbero ritornare alle loro case, ma è un po’ duro nutrire quattro ragazzi più me stesso, procurar loro degli abiti e il biglietto dell’autobus per andare in giro a cercare lavoro: il tutto con cinquanta dollari la settimana”. Mi trovai a guardare negli occhi il Pastore Palser. Egli mi fece un cenno affermativo. Il Signore aveva risposto alla sua preghiera per un lavoro a Brooklyn che la sua chiesa potesse sostenere.
Un po’ più tardi Edgar e Sarah e Gwen e io stavamo seduti di nuovo nella nostra automobile. Improvvisamente incominciai a ridere. Era uno strano, santo e salutare riso, come mi era accaduto soltanto in poche occasioni della mia vita. Credo che debba essere stato una specie di riso di approvazione, perché era mescolato con un rendimento di grazie. Non cercai di soffocarlo. Ben presto Gwen, Edgar e Sarah si unirono a me. Penso che ridemmo per tre minuti interi, allegramente come se attraverso di noi scorressero le vive acque della gioia. Sapevamo tutti esattamente che cosa significasse questa esperienza.
“Se scendo nel soggiorno dei morti, eccoti là”, citò Edgar (Salmo 139:8). E tutti ridemmo ancora per un poco. Perché era esattamente così, ciascuno di noi era certo che questo squallido edificio sulla Seconda Avenue, con la sua immondezza che piombava giù nel cortile interno, con i suoi anditi puzzolenti di urina e il suo tetto che era stato adoperato come luogo d’incontro di drogati, per quanto potesse essere incredibile, questo era un luogo dove Dio vive.
“Ti ringrazio, Signore. Ti ringrazio tanto per averci dato questa indicazione della via che Tu oggi percorri”, dissi. “Ti ringrazio per aver posto nei nostri cuori il lavoro di Fernando. Grazie per aver risposto alle mie domande circa il trasferimento a Dallas, perché ora io vedo che tu stai facendo sorgere in questa città una seconda generazione di gente consacrata. Vedo ora che il Tuo lavoro non dipende affatto dagli individui. Non da me. Non da Don o dalla mamma o da chiunque della squadra di Teen Challenge. Questa è la Tua opera e Tu continuerai a benedirla”.
Togliemmo, portafogli e borsette da sotto il sedile, mettemmo in moto l’auto e ci allontanammo da Holy Ground (terra santa).

Così quella fu una visita a un luogo di appuntamento, in un momento in cui ne avevo un disperato bisogno. Ritornai a Dallas incoraggiato e fiducioso che l’espansione del nostro lavoro a livello nazionale era stata veramente guidata. Edgar e sua moglie fecero del lavoro di Fernando un soggetto della loro preghiera missionaria. Il padrone di casa ebbe nuovo coraggio e rimase nell’edificio.

Francamente non so che cosa avrei fatto dopo aver completato La croce e il pugnale se non avessi avuto i luoghi d’appuntamento, specialmente nei momenti di svolta della mia vita. Potevo capire così facilmente perché Giacobbe si fosse inginocchiato a Peniel... perché.. ho veduto Iddio a faccia a faccia e la mia vita è stata risparmiata (Genesi 32:30), e perché Abramo costruiva i suoi altari... al Signore che gli era apparso (Genesi 12:7), e perché il Salmista avesse cantato: Io mi sono rallegrato quando mi hanno detto: Andiamo alla casa dell’Eterno (Salmo 122:1).
Ma generalmente per me i luoghi d’appuntamento non erano posti che condividevo con altra gente. Per me erano solitamente luoghi appartati, del tutto privati, dove una volta avevo incontrato il Signore con una richiesta specifica in mente. A questi posti io potevo sempre ritornare quando la vita diventava insopportabile. Sulla via del ritorno a Dallas mi venne fatto di pensare a una di queste volte.


Ero nei guai ma non lo sapevo.
Veramente non mi ero neppure sognato che la pubblicazione del libro La croce e il pugnale avrebbe prodotto un tale cambiamento nella mia vita.
Il libro conteneva un epilogo nel quale dicevo, a proposito del nostro lavoro, che al comando c’era lo Spirito Santo. A quel tempo, tardo 1964, una simile affermazione era vera e precisa. Eravamo ancora un’operazione di piccolo calibro. Dovevamo far capo completamente al Signore. Che lo volessimo o no rimanevamo un gruppo piuttosto semplice.
La comparsa del volume cambiò tutto questo.
Improvvisamente venni considerato un esperto di droga. Nella rivista life si fece un gran parlare circa Teen Challenge e il lavoro che stavamo facendo con i drogati. Se ne parlò sul Time. Il New York Times, il Daily News e il Post fecero servizi su di noi. Televisione e radio mi intervistarono. Gli inviti a parlare arrivavano assai più rapidamente di quanto io non potessi respingerli. Dovetti installare nel mio ufficio tre reti telefoniche per rispondere a tutte le chiamate e quattro segretari soltanto per occuparsi della corrispondenza.
La gente incominciava a fermarmi per la strada per farmi domande. A casa dovemmo per la prima volta nella nostra vita farci assegnare un numero di telefono non presente negli elenchi. In breve, non ero più una persona privata.
Quindi un giorno, era l’estate del 1968, quattro anni dopo la comparsa del volume, stavo correndo fra il vecchio edificio al 416 di Clinton Avenue e quello nuovo in fondo alla strada, al numero 444, che avevamo acquistato per farne il nuovo quartier generale.
Improvvisamente mi trovai di fronte un cinese. Non lo avevo visto arrivare. Ad ogni modo ora era lì, proprio sulla mia strada. Cercai di spostarmi a sinistra e lui si mosse per bloccarmi. Cercai di spostarmi dall’altra parte e si mosse anche lui. Finalmente mi fermai. Faceva molto caldo, era umido ed ero impaziente.
“Mi scusi”, dissi tentando di girargli intorno di nuovo, soltanto per essere bloccato un’altra volta; dovetti fermarmi.
“Lei è David Wilkerson”, disse l’uomo. Era una affermazione, non una domanda. Mi fissò con occhi semichiusi, tranquilli, con una pace che mi diceva che dovevo stare fermo. “Sono un uomo di Dio”, disse il cinese in un inglese impeccabile, “e vivo a Hong Kong. Sono stato mandato dal Signore a parlare con lei. Il mio messaggio è molto semplice. Lei dipende troppo da David Wilkerson. Lei non si affida allo spirito. Ha perduto in semplicità”.
Questa era bella! Come osava questo piccolo cinese fermarmi sulla strada mentre andavo a un’intervista importante! Non sapeva che stavo predicando a seimila persone la settimana, che il mio lavoro di riabilitazione dalla droga si era diffuso da questo Centro a tutti i suburbi e di lì a tutte le ramificazioni del Paese? Non lo dissi a chiare lettere, ma sono sicuro che ogni nota, ogni suono conteneva quello che era il mio vero pensiero: “Come osate fermare quest’uomo importante, David Wilkerson!”
Ebbene, l’uomo era ferito. Si vedeva chiaramente. I suoi occhi si riempirono di lacrime. “Io non sono preoccupato per me, David. Io sto piangendo per te. Non avrei voluto affatto farti arrabbiare. So che sei stato impiegato dal Signore. Tuttavia debbo obbedire. Mi è stato detto di parlarti e dovevo farlo”.
E l’omino passò oltre. Rimasi lì sul marciapiede per un certo tempo, sudando, chiedendomi dove avesse imparato quel suo ottimo inglese, quindi mi strinsi nelle spalle e corsi rapidamente al mio appuntamento, convinto che l’uomo non potesse essere stato mandato dal Signore. Il Signore non mi avrebbe rimproverato offendendomi in questo modo. Il Signore era gentile.
Dissi tutto questo a Gwen quella notte: “Era una cosa molto stupida non è vero? Quest’uomo che mi diceva che avevo perduto la mia semplicità”.
“Stupida?” Gwen disse. “No”.
Gwen non era mai stata una che mi rimproverasse. Ad ogni modo neanche io ero in grado di imbrogliarla. Avrei potuto mettere da parte il misterioso straniero, ma quando Gwen stessa aggiungeva al suo pensiero la propria approvazione, dovevo stare a sentire accuratamente. Avevamo effettivamente perduto la nostra semplicità?
Il nostro livello di vita non aveva fatto cambiamenti eccessivi dai giorni di Philipsburg, prima che ci spostassimo a New York, ma avevamo una casa piacevole e usavamo un’automobile comoda. Anche la mia camera per la preghiera era comoda: avevo ricavato una camera di ritiro da una porzione del nostro garage. E fu lì che io andai ora, cercando di pensare a questa faccenda della semplicità.
Dopo un po’ diventai irrequieto e portai Gwen a un piccolo ristorante italiano vicino casa dove spesso andavamo quando avevamo bisogno di parlare. Ci sedemmo lì tenendoci per mano e chiacchierando durante l’antipasto.
“Certamente il Signore qualche volta adopera delle voci” , disse Gwen, “voci che noi non vogliamo udire. Profeti che sono mandati con una parola del Signore”.
“E pensi che il nostro uomo fosse uno di costoro?”
“Come posso dirlo, David? Come dice una vecchia canzone, Dio lavora in maniere misteriose’. Alla fine del nostro antipasto stavo dicendo a Gwen: “Ebbene, credo che dovrò partire per un piccolo viaggio. Devo trovare un luogo di appuntamento”.
E fu così che il giorno successivo rinviai tutti gli appuntamenti e partii per un pellegrinaggio a un vecchio luogo di appuntamento. Lasciai Gwen e figli, il lavoro al numero 416 di Clinton Avenue e attraverso il ponte George Washington intrapresi il senso inverso il viaggio che Miles Hoover e io avevamo fatto verso New York tanti anni addietro. Puntai prima di tutto verso Barnesboro, in Pennsylvania, domandandomi se forse il luogo di appuntamento di Dio per me fosse lì, nell’ambiente della mia infanzia. Oltrepassai il Liceo dove avevo affrontato il bullo della classe e avevo imparato per la prima volta il significato pratico del versetto: “Non per potenza né per forza ma per lo spirito mio, dice l’Eterno degli eserciti” (Zaccaria 4:6). Ma sentii di non dovermi fermare lì.
Così prosegui verso la Old Baldy Hill, la “Vecchia Collina Calva”. Il luogo faceva senz’altro riaffiorare ricordi. Al disotto potevo vedere la strada di campagna che portava da Barnesboro alla città di Cherry Tree; era sempre la stessa strada che diventava sempre più sottile e scompariva nella distanza. Da ragazzo avevo l’abitudine di sedere lì domandandomi dove portasse quella strada e che cosa ci fosse al di là di quelle colline. Era lì che usavo indulgere in fantasie su piloti nemici che attaccavano gli Stati Uniti. Con gli occhi della mia immaginazione osservavo i feroci combattimenti che infuriavano nel cielo di Barnesboro. E naturalmente tanto i bravi ragazzi quanto quelli cattivi cadevano sulle colline della Pennsylvania e bruciavano vivi come i fuochi dell’inferno di cui mio padre predicava dal suo pulpito.
“Ma Old Baldy non è il luogo dove Tu vuoi che io vada, Signore”, dissi. “Mi stai trascinando in qualche altro posto. Perciò andiamo”.
Mi infilai nell’automobile e mi diressi verso Philipsburg.
Mi attendevo che Philipsburg, dove avevo svolto il mio primo pastorato, fosse cambiata da quando l’avevo lasciata qualche anno prima. Ma a quanto potevo vedere la città non era cambiata per niente. Era sempre una città di fattorie. C’era ancora la stessa unica fabbrica che produceva abiti di poco costo per uomini. E lì, ancora lì, c’era la piccola chiesa. Mentre passavo oltre mi imbattei in un punto famoso, la casa base da dove una volta Lou Gehrig aveva dato inizio al gioco.
Non c’era nessun in giro, così entrai nella chiesa, camminai lungo la navata e presi il mio vecchio posto dietro il pulpito. Con gli occhi della mente potevo esattamente vedere dove stavano seduti tutti i miei parrocchiani. C’era il fratello Meyers. C’era il fratello Peters. Era tutto come prima. Potevo addirittura immaginare la nostra vicina dall’altra parte della strada che ci gridava di nuovo di star zitti per piacere perché disturbavamo la sua tranquillità.
Ma il mio luogo d’appuntamento non era neppure qui.
E allora capii dove era.
Come aveva potuto sfuggirmi? Albert Hill, naturalmente. Balzai in auto e per la strada a zig-zag salii l’altura, ricordando quanto spesso prima di allora avevo fatto questa corsa con la mia vecchia Chevrolet. Mi attendevo che Albert Hill fosse stata lottizzata o riempita di roulottes o cose simili. Ma anche quel luogo era rimasto esattamente lo stesso. Uscii dall’auto e raggiunsi roccia sulla quale mi sedevo sempre e guardavo verso Philipsburg. La chiesa era proprio sotto e potevo vedere il cortile posteriore dove in tante occasioni avevamo bevuto gazzosa con parrocchiani.
“Quella era una vita semplice, Signore. E’ questa la semplicità di cui mi stai parlando? Non ne sono sicuro. Vuoi che rimaniamo nei nostri cortili posteriori dove la vita è sicura, semplice e facile?”
Avevo portato con me la Bibbia. La mia Bibbia molto speciale. Quella che avevo portato con me in Tribunale quel giorno anni prima in cui era incominciato il processo contro Michael Farmer. Ora, mentre la prendevo, potevo ancora vedere i volti dei sette ragazzi accusati dell’assassinio di un bambino mutilato. Potevo quasi sentire il peso della Bibbia mentre la portavo lungo il corridoio per cercare di parlare al giudice del processo. Questa era la Bibbia che i giornalisti mi avevano convinto a tenere in alto mentre mi facevano fotografie che mi fecero apparire come una specie di campagnolo fanatico.
Quanti ricordi. Per anni e anni avevo scritto annotazioni sui margini di questa Bibbia. L’avevo smarrita una volta, ma era caduta nelle mani di un giovane che la tenne con sé per una notte e quindi me la restituì con il commento: “David, devo confessare che ho letto le note sui margini. Sai che cosa mi dicono? Mi danno l’immagine di un’anima che è un po’ in estasi e un po’ in tormento”. Su questo aveva avuto ragione.
Ora aprii la Bibbia e incominciai a leggere le note marginali e il testo relativo, incominciando direttamente dalla Genesi:
Dio si rattrista. Si pente. Si rallegra.

“Il Signore si pentì d’aver fatto l’uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo” (Genesi 6:6).

Dio pretende da ognuno rispetto per le sue promesse.

“Allora Sara negò, dicendo: ‘Non ho riso’, perché ebbe paura. Ma Egli disse: ‘Invece hai riso’” (Genesi 18:15).

L’espressione più importante in qualsiasi lingua è: “Il Signore era con lui”.

“Ma il Signore fu con Giuseppe, gli mostrò il suo favore e gli fece trovare grazia agli occhi del governatore della prigione” (Genesi 39:21).

Che cosa aveva a che fare tutto ciò con la mia domanda? Il cinese aveva detto che stavo scostandomi dalla semplicità. Che genere di semplicità avevo conosciuto, un tempo, che il Signore voleva che io riprendessi? Era una semplicità di stile di vita? Mi ero spostato dalla vita fisicamente semplice di Philipsburg a quella più comoda dei suburbi di una città. Era questo? No, probabilmente no. Era una cosa che andava più in profondità. Un tempo, quando avevo incominciato a lavorare con ragazzi delle bande e drogati, avevo una semplicità che andava oltre lo stile di vita. Era una semplicità di fede.
“Signore, eccoti qui! Ora me Lo hai fatto vedere. Questo è ciò che Tu vuoi che io abbia. Vuoi che io mi metta da parte, che faccia conto assolutamente su di Te. La mia vita può diventare complessa ma la mia fede dovrebbe sempre rimanere semplice in quel modo. Ho fatto conto su me stesso e non sulla Tua Parola”.
Saltai su battendo le mani e facendo passi di danza mentre raggiungevo l’automobile.
Feci gran parte della strada per New York cantando: perché vedevo chiaramente che era stato proprio il Signore a inviarmi quell’uomo. Ora sapevo che cosa dovevo temere: la perdita della mia semplicità di fede.
Poco prima di raggiungere Manhattan, passai vicino al posto dove Miles Hoover e io avevamo perso la strada in occasione della nostra prima visita alla città e dove il Signore ci aveva incoraggiati a proseguire. Mi fermai, uscii dall’auto e salii a piedi la collina.
Sì, era proprio lo stesso posto. C’erano i due alberi, c’era il distributore di benzina in fondo alla strada e c’erano anche il guardrail e la curva. Mi dette la sensazione di aver completato il cerchio.
“Grazie, oh Signore, per quello che hai fatto per me sulla Albert Hill. Fa che io non dubiti mai di nuovo del valore di un luogo d’appuntamento. Fa che io non torni a fidarmi soltanto di me stesso. Invece fa sì che io mi affidi a Te”.

Ben presto avrei imparato che affidarmi al Signore comportava molto più di quanto avevo immaginato. Adesso anche nella mia vita personale confidavo di più in Lui. Ma che dire dell’affidarsi a Lui anche per quanto riguarda la vita degli altri?

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