Gli Esclusi - Il thriller degli ultimi giorni del mondo
Gli Esclusi - Il thriller degli ultimi giorni del mondo

Gli Esclusi - Il thriller degli ultimi giorni del mondo

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All'improvviso, e contemporaneamente, milioni di persone spariscono letteralmente in tutto il mondo e gettando l'umanità nel caos e nel panico; sulla scena mondiale emerge un personaggio politico eccezionale...
ISBN: 9788834412060
Produttore: Armenia
Codice prodotto: 9788834412060
Peso: 0.480kg
Rilegatura: Brossura
Lingua: Italiano

Capitolo gratuito

Ad Alice Mac Donald e Bonita Jenkins,
che ci hanno garantito che non saremo esclusi


1.
I PENSIERI DI RAYFORD STEELE vagavano di continuo su una donna che non aveva mai neanche toccato. Il suo 747, a pieno carico e con il pilota automatico innestato, faceva rotta sopra l’Atlantico; ora prevista dell’atterraggio a Heathrow: le sei del mattino. Rayford aveva rimosso deliberatamente ogni pensiero riguardo ai familiari.
Allo spuntare della primavera, avrebbe trascorso qualche tempo con la moglie e il figlio di dodici anni. Anche la figlia avrebbe fatto ritorno a casa dal college. Ma al momento, con il suo primo ufficiale appisolato, Rayford si figurava il sorriso di Hattie Durham e non vedeva l’ora di incontrarla di nuovo.
Hattie era l’assistente di volo senior di Rayford; non la vedeva da più di un’ora.
Di solito, Rayford era ansioso di tornarsene a casa dalla moglie. Irene, benché sulla quarantina, era ancora abbastanza attraente e briosa. Ultimamente, tuttavia, lui aveva cominciato a sentirsi respinto dalle manie religiose di lei, che riusciva a parlargli solo delle sue ossessioni.
Rayford non aveva nulla contro Dio; occasionalmente gli piaceva addirittura fare un salto in chiesa. Ma da quando Irene si era unita a una piccola comunità e aveva iniziato a bazzicare corsi biblici settimanali e ad andare in chiesa ogni domenica, Rayford aveva preso a sentirsi a disagio. La chiesa della moglie non era di quelle che ti concedono il beneficio del dubbio, pensano tutto il bene possibile del prossimo e lo lasciano in pace. Quelli gli avevano chiesto papale papale quale fosse il ruolo di Dio nella sua vita.
«Mi sazia di benedizioni», era stata la sua divertita risposta, il che apparentemente li aveva soddisfatti; ma intanto aveva iniziato ad accampare un numero crescente di pretesti per ritrovarsi impegnato la domenica.
Rayford cercava di ripetere a se stesso che era proprio la devozione della moglie a un divino pretendente a far sì che la sua mente divagasse. Ma sapeva bene che la vera causa era la sua stessa libido.
Inoltre, Hattie Durham era bella da mozzare il fiato. Indiscutibilmente. Il fatto che più lo allettava era che lei amava il contatto fisico. Nulla di sconveniente, niente di vistoso: si limitava a toccargli il braccio mentre gli passava accanto sfiorandolo o ad abbandonargli dolcemente la mano sulla spalla mentre sostava dietro di lui seduto ai comandi nella cabina di pilotaggio.
Ma non era solo il contatto ad indurre Rayford a desiderare la compagnia di lei. A giudicare dall’espressione, dal comportamento e dagli sguardi, Hattie quanto meno lo apprezzava e lo rispettava. Se fosse interessata anche a qualcos’altro, era solo materia di fantasticherie. E, difatti, Rayford fantasticava.
Avevano passato del tempo assieme, chiacchierando per ore su un drink o a pranzo, a volte con i colleghi altre volte soli. Rayford non era andato oltre lo sfiorarla con un dito, ma i suoi occhi ne avevano sostenuto lo sguardo e il suo sorriso – poteva solo arguire – aveva chiarito il punto.
Forse nel corso della giornata, magari in mattinata, se il bussare in codice di lei alla porta non avesse destato il primo ufficiale, Rayford avrebbe appoggiato la sua mano sopra quella di lei abbandonata sulla sua spalla; in via amichevole, sperando che Hattie avrebbe interpretato il gesto come un passo, il primo da parte sua, per allacciare una relazione.
E difatti sarebbe stato il primo in assoluto. Rayford, pur non essendo un puritano, non era mai stato infedele a Irene. E dire che gli erano capitate diverse occasioni. Si era a lungo sentito in colpa per via di un’orgetta nel corso di una festa natalizia della compagnia, più di dodici anni prima. Irene era rimasta a casa indisposta, oltre il nono mese di gravidanza, incinta di Ray Jr., il loro secondo figlio tanto atteso.
Benché alticcio, Rayford era rimasto abbastanza lucido da abbandonare il festino per tempo. Irene, chiaramente, s’era accorta che era leggermente ubriaco, ma non avrebbe potuto sospettare nient’altro. Non nei riguardi del suo irreprensibile comandante, che una volta, solo per aver ingollato un paio di martini mentre era chiuso l’aeroporto di O’Hare per via d’una nevicata, era rimasto volontariamente a terra dopo che il tempo si era ristabilito e si era offerto addirittura di pagare di tasca sua un sostituto. La Pan-Continental ne era rimasta così impressionata da additare ad esempio il suo senso di autodisciplina e la sua prudenza.
Di lì a due ore, Rayford sarebbe stato il primo a scorgere il debole bagliore del sole, una gamma invitante di tenui sfumature pastello, segno della riluttanza dell’alba a sorgere sul continente. Fino a quel momento, l’oscurità fuori dal finestrino sarebbe sembrata spessa miglia e miglia.
I passeggeri, intorpiditi o addormentati, avevano abbassato le tendine e piazzato cuscini e coperte.
Al momento, l’aereo era un oscuro, ronzante dormitorio per tutti, tranne che per qualche nottambulo: i membri dell’equipaggio e un paio di persone tese a rispondere al richiamo della natura.
La domanda dell’ora più buia prima dell’alba era se Rayford Steele si sarebbe arrischiato in una nuova, eccitante relazione con Hattie Durham. Il comandante represse un sorriso. Stava ingannando se stesso? Qualcuno con la sua stessa reputazione sarebbe mai andato al di là dei sogni con una bella donna di quindici anni più giovane? Non ne era più così sicuro. Se solo Irene non si fosse abbandonata alle sue fisime...
Sarebbe svanita l’ansia della moglie per la fine del mondo, per l’amore di Gesù e per la salvezza delle anime? Ultimamente Irene leggeva tutto quello che le capitava a tiro sull’Assunzione in cielo dei veri cristiani, che, alla seconda venuta di Cristo, sarebbero stati «rapiti» fra le nubi per andare incontro al Signore nell’aria.* «Riesci a immaginare, Rafe», aveva esultato, «Gesù che ritorna e viene a prenderci prima della nostra morte?»
«Già», aveva risposto lui sbirciando da sopra il giornale, «ci rimarrei secco, caspita!»
Irene non si era per niente divertita. «Se non sapessi che cosa mi accadrà», aveva obiettato, «non avrei la lingua così sciolta».
«Io lo so che cosa avverrebbe di me», aveva insistito lui. «Sarei morto, spacciato, finis. Ma tu, naturalmente volerai dritta in cielo»
Non l’aveva voluta ferire di proposito, si stava semplicemente divertendo. Quando lei si era allontanata, Rayford si era alzato e l’aveva seguita; le aveva girato intorno cercando di baciarla, ma lei era rimasta fredda.
«Andiamo, Irene», aveva ripreso lui, «chi non rimarrebbe stecchito se Gesù tornasse sulla terra per i giusti?».
Lei si era asciugata le lacrime. «Te l’ho detto e ripetuto, non saranno i buoni a salvarsi, ma...»
«... già, lo so, solo coloro che avranno ricevuto il perdono», aveva risposto Rayford sentendosi respinto e vulnerabile persino nel salotto di casa. Era tornato alla poltrona e al giornale. «Se ti fa star meglio, sono felice per te che ti senti così sicura.»
«Mi limito a credere a quello che dice la Bibbia», aveva concluso Irene.
Rayford aveva scrollato le spalle. Intendeva dire semplicemente «Buon per te!», non voleva di certo peggiorare una situazione già compromessa. In un certo qual modo, invidiava la sicurezza della moglie, ma in verità non gli andava giù che lei fosse così emotiva e sensibile. Non voleva approfondire la questione, ma era innegabile che lui era più brillante, sì, più intelligente; credeva nelle regole, nei sistemi, nelle leggi, negli schemi, nelle cose che si possono vedere, percepire, udire e toccare.
Se Dio ne avesse fatto parte, era tutto OK; una potenza trascendente, un essere misericordioso, una forza dietro le leggi della natura, benissimo! Cantiamone le lodi, preghiamolo, sentiamoci compiaciuti per la nostra capacità d’essere buoni con gli altri e continuiamo per la nostra strada. La più grande paura di Rayford era che le manie religiose di Irene non si sarebbero dissolte nel nulla come il suo entusiasmo di venditrice porta a porta per la Amway o di propagandista per la Tupperware, e come la sua passione per la ginnastica aerobica. Se l’immaginava tutta intenta a suonare campanelli e a chiedere alla gente se poteva leggere un paio di versetti. Per certo, Irene era abbastanza saggia da non farsi illusioni sul fatto che lui l’avrebbe seguita.
Irene era diventata una devota entusiasta in piena regola, il che in qualche modo autorizzava Rayford a nutrire delle fantasie su Hattie Durham senza sentirsi in colpa. A Heathrow, probabilmente lui, nel dirigersi con Hattie a grandi passi verso la fila dei taxi, le avrebbe detto qualcosa, avrebbe alluso o accennato a qualcosa. O forse anche prima. Avrebbe avuto il coraggio di farsi avanti anche in quello stesso istante, a ore di distanza dall’atterraggio?

***

Un giornalista, curvo sul suo computer portatile, era seduto in prima classe, accanto al finestrino; il giovane spense l’elaboratore, ripromettendosi di tornare al suo diario. A trent’anni, Cameron Williams era il più giovane e autorevole giornalista del prestigioso Global Weekly, invidiato dal resto dello staff sia quando batteva in volata i colleghi assicurandosi l’esclusiva, sia quando gli affidavano gli articoli più interessanti. Alla rivista, gli ammiratori e i detrattori, lo chiamavano “Buck-l’ariete” dal momento che – sostenevano – si scagliava sempre a testa bassa contro la tradizione e l’autorità. Buck era convinto di vivere una vita da privilegiato, essendo stato testimone di alcuni degli avvenimenti storici cruciali del suo tempo.
Un anno e due mesi prima, la sua cover story del 1° gennaio lo aveva condotto in Israele ad intervistare Chaim Rosenzweig; ne era scaturita l’esperienza più spiazzante che avesse mai vissuto.

Nel corso di tutta storia del Global Weekly, l’attempato Rosenzweig era stato l’unica scelta unanime della redazione come «Personaggio dell’Anno». Lo staff della rivista, come al solito, aveva evitato di selezionare chiunque fosse papabile per «L’uomo dell’anno» di Time. Sennonché Rosenzweig era diventato una scelta automatica. Cameron Williams si era presentato alla riunione deciso a sostenere Rosenzweig a scapito di una qualunque star dei media di cui gli altri avrebbero prevedibilmente perorato la causa.
Rimase piacevolmente sorpreso quando il direttore esecutivo, Steve Plank, esordì: «C’è qualcuno che vuol nominare un fesso qualsiasi che non sia il premio Nobel per la chimica?»
I membri più qualificati dello staff si guardarono in faccia, scossero il capo e fecero per uscire. «La seduta è tolta», fece Buck, «andate in pace».
«Steve, non voglio mettere il carro davanti ai buoi, ma sai bene che conosco quel tipo e che lui si fida di me.»
«Vacci piano, cowboy», sbottò un rivale appellandosi poi a Plank. «Non lascerai che Buck assuma l’incarico di sua iniziativa?»
«Potrei farlo», replicò Steve. «E allora?»
«Pensavo solo che in fondo si tratta di un pezzo tecnico, di un articolo scientifico», mormorò il detrattore di Buck. «Io lo affiderei a un esperto.»
«Già, per far addormentare i lettori», malignò Plank.
«Andiamo, lo sapete tutti quanti che quelli che scrivono gli articoli di spicco saltano fuori da questo gruppo. E qui non abbiamo a che fare con un articolo scientifico, più di quanto non lo fosse il primo che Buck ha scritto su Rosenzweig. Questo va chiarito, in maniera tale che il lettore venga a conoscere l’uomo e a comprendere il significato delle sue conquiste».
«Il che non è tanto ovvio, dal momento che hanno cambiato il corso della storia.»
«Oggi affiderò l’incarico», tagliò corto il direttore esecutivo. «Grazie per la tua disponibilità, Buck. Do per scontato che siano disponibili anche tutti gli altri.» Un’ondata di entusiasmo illuminò i volti dei presenti, ma Buck udì anche i mugugni di qualcuno che faceva previsioni sul fatto che «il biondino» avrebbe ottenuto l’assenso.
Il che avvenne puntualmente.
La fiducia del capo e la competizione con i suoi pari lo rendevano più determinato a svolgere i compiti che via via gli venivano assegnati. In Israele, Buck soggiornò in una base militare e incontrò Rosenzweig nello stesso kibbutz alla periferia di Haifa dove l’aveva intervistato un anno prima.
Rosenzweig era affascinante, naturalmente, ma la scoperta, la sua invenzione – che nessuno avrebbe saputo definire con certezza – forse era il vero «Personaggio dell’Anno».
L’uomo, umilmente, si definiva un botanico ma in realtà era un ingegnere chimico che aveva preparato un fertilizzante sintetico che aveva fatto fiorire come una serra le sabbie desertiche d’Israele.
«L’irrigazione non rappresenta un problema da decenni», dichiarò l’anziano luminare. «Ma ha avuto il solo risultato di inumidire la sabbia. Il mio composto, unito all’acqua, la fertilizza».
Buck non era uno scienziato, ma ne sapeva abbastanza per annuire di fronte a quella scarna asserzione. La formula di Rosenzweig stava facendo di Israele la nazione più ricca della terra, di gran lunga più prospera dei vicini paesi petroliferi. Ogni centimetro di terreno si ricopriva di fiori, di cereali, incluse le derrate fino a quel momento inconcepibili per quel paese. La Terra Santa era diventata una risorsa da esportazione, l’invidia del mondo; il tasso di disoccupazione si era praticamente ridotto a zero. Tutti prosperavano.
La ricchezza indotta dalla formula miracolosa cambiò il corso della storia. Inondata da un flusso di capitali e di risorse, Israele si rappacificò con i vicini.
Il libero commercio e l’assenza di barriere permisero a tutti coloro che amavano quella nazione di avervi accesso. Natural-mente, nessuno avrebbe avuto accesso alla formula.
Buck non aveva nemmeno chiesto all’anziano scienziato di rivelare la formula né aveva mendicato informazioni sul complesso sistema di sorveglianza che la proteggeva dai potenziali nemici. Il fatto stesso che Buck fosse ospite dei militari evidenziava l’importanza del fattore sicurezza. Il mantenimento del segreto garantiva la forza e l’indipendenza dello stato ebraico. Mai Israele aveva goduto di una tale tranquillità. La città fortificata di Gerusalemme rimaneva solo un simbolo, che dava il benvenuto a tutti coloro che abbracciavano la pace. La vecchia guardia riteneva che Dio li avesse ricompensati per le persecuzioni patite nel corso dei secoli.
Chaim Rosenzweig era onorato in tutto il mondo e riverito nel suo stesso paese. I leader mondiali se lo contendevano, ma lo scienziato era protetto da un sistema di sicurezza complesso, degno di un capo di stato. Pur inebriati dal successo appena raggiunto, come del resto l’intero stato d’Israele, i capi della nazione erano tutt’altro che degli stupidi. Rosenzweig, rapito e torturato, avrebbe potuto essere indotto a rivelare un segreto in grado di rinnovare radicalmente qualunque nazione sulla faccia della terra.
Immaginate che cosa avrebbe potuto fare la formula modificata per agire sull’immensa tundra della Russia! Quelle regioni avrebbero forse potuto essere rese coltivabili benché la neve le ricoprisse per gran parte dell’anno? Era quella la chiave per far risorgere una nazione potentissima dopo la disgregazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche?
La Russia era diventata un gigante frustrato dall’economia devastata e dalla tecnologia obsoleta. Tutto quello che le restava era la potenza militare e ogni singolo euro disponibile veniva investito negli armamenti. Il passaggio dal rublo all’euro si era rivelato una transizione tutt’altro che agevole per una nazione in ginocchio.
La semplificazione della finanza mondiale, il fatto di ridurre a tre le principali divise, aveva richiesto degli anni, ma una volta portata a termine, i più ne erano rimasti soddisfatti. Tutta l’Europa e la Russia trattavano esclusivamente in euro; l’Asia, l’Africa, il Medio Oriente in yen; il Nordamerica, il Sudamerica e l’Australia in dollari. Era in corso un’azione per ridurre le tre divise ad una singola valuta globale, ma tutte quelle nazioni che avevano già con riluttanza commutato la propria moneta erano restie a ripetere l’operazione.
Frustrati per l’incapacità di approfittare della fortuna d’Israele e determinati ad occupare e a dominare il Medio Oriente, i russi avevano lanciato un’offensiva nel cuore della notte.
L’attacco divenne noto come la «Pearl Harbor russa» e, per via dell’intervista a Rosenzweig, Buck Williams si trovava ad Haifa quando avvenne. I russi lanciarono missili balistici intercontinentali e inviarono cacciabombardieri MiG equipaggiati con ordigni nucleari. Il numero degli apparecchi e delle testate esplicitava che si trattava di una missione d’annientamento.
Dire che gli israeliani erano stati colti di sorpresa era altrettanto ovvio che ammettere che la Grande Muraglia cinese era lunga. Quando i radar israeliani individuarono gli aerei russi, li avevano ormai sopra la testa. Gli appelli frenetici degli israeliani ai paesi confinanti e agli Stati Uniti furono diramati contemporaneamente alla richiesta agli invasori dello spazio aereo di rivelare i loro obiettivi. Al momento, Israele e i suoi alleati non erano in grado di opporre la benché minima resistenza: era ovvio che i russi li avrebbero soverchiati cento a uno.
Solo qualche istante prima della distruzione totale. Non ci sarebbe stato il tempo per i negoziati, per ulteriori appelli con la promessa di condividere le ricchezze con le orde di invasori nordici. Se i russi avevano solo l’intenzione di intimidire e di mostrare i muscoli, non avrebbero riempito il cielo di missili. Gli aerei avrebbero anche potuto tornare indietro, ma i missili erano armati e diretti verso gli obiettivi.
Non si trattava dunque di una grandiosa messinscena per mettere in ginocchio Israele: nessun messaggio per le vittime. Non ricevendo spiegazione alcuna per gli ordigni bellici che ne avevano oltrepassato i confini dal cielo, Israele fu costretta a difendersi ben sapendo che la prima ondata avrebbe comportato la sua sparizione totale dalla faccia della terra.
A sirene spiegate e lanciando alla popolazione condannata appelli radiotelevisivi alla difesa con ogni mezzo, per quanto inadeguato, Israele si apprestò al contrattacco per l’ultima volta nella storia. La prima batteria di missili israeliani terra-aria andò a segno e il cielo rimase ingombro di palle di fuoco giallo-arancione, che certamente, però, sarebbero valse a poco per rallentare la devastante offensiva russa.
Coloro che erano a conoscenza dei fatti e delle intercettazioni radar interpretarono le esplosioni assordanti come l’attacco violento dei russi. I capi militari più informati si aspettavano di essere sollevati dalla loro angosciosa condizione nel giro di pochi secondi, allorché il fuoco nemico avesse toccato terra coprendo l’intero paese.
Da quello che vide e udì nella base militare, Buck Williams sapeva che la fine era imminente. Nessuna via d’uscita. Ma nel momento in cui la notte veniva illuminata a giorno e le terribili, assordanti esplosioni continuavano a susseguirsi, niente in superficie ne subiva le conseguenze: gli edifici tremavano, scricchiolavano e rimbombavano, e tuttavia rimanevano al loro posto.
Fuori, gli aerei militari russi precipitavano, scavando crateri nel terreno e sparpagliando rottami infuocati in ogni dove. Eppure le linee di comunicazione rimanevano aperte; nessuna delle postazioni di comando era stata colpita; niente bilancio delle perdite, nessuna distruzione.
Era tutto uno scherzo crudele? Di sicuro, la contraerea israeliana aveva intercettato i caccia russi facendo esplodere i missili troppo in alto per provocare danni a terra, a parte gli incendi. Ma che cos’era avvenuto del resto dell’armata aerea nemica? I radar mostravano chiaramente che i russi avevano inviato quasi tutti i loro aerei, tenendone a malapena qualcuno di riserva per difesa. Gli aviogetti cadevano a migliaia sulle città più popolose di quel piccolo paese.
Il cupo rimbombo e gli schianti sinistri continuavano, le esplosioni erano così orribili che anche i capi militari più navigati si coprivano il volto urlando di terrore. Buck aveva sempre desiderato d’essere in prima linea, ma l’istinto di sopravvivenza lo paralizzava completamente. Sapeva, al di là di ogni ragionevole dubbio, che sarebbe morto e si ritrovò immerso nei pensieri più strani. Perché non si era mai sposato? Sarebbero rimasti dei resti del suo corpo che il padre e il fratello potessero identificare? Dio esiste? La morte sarebbe stata la fine di tutto?
Si accovacciò sotto una consolle, sorpreso dall’impulso di piangere. La guerra non assomigliava per niente a come se l’aspettava, non ne aveva affatto l’aria. Si era immaginato mentre da un posto sicuro contemplava l’azione registrando il dramma mentalmente.
Dopo qualche minuto di immersione nell’olocausto, Buck capì che, dentro o fuori, sarebbe morto comunque. Non si sentiva in vena di spacconerie, provava solo un senso di eccezionalità. Sarebbe stato l’unico sul posto che avrebbe visto e compreso che cosa l’avrebbe ucciso. Con le gambe molli, si aprì un varco verso una porta. Nessuno sembrava accorgersi di lui o darsi pena di dissuaderlo, era come se fossero stati tutti condannati a morte.
Sfondò la porta che sembrava aprirsi su una specie di altoforno e si schermò gli occhi con le mani per proteggersi dal biancore della vampa. Il cielo era in fiamme; udiva ancora il rombo degli aeroplani tra il crepitio e il fragore delle fiamme, e di quando in quando i missili, che nell’esplodere emanavano una pioggia di fuoco nell’aria. Rimase indicibilmente atterrito e stupito allorché vide cadere a piombo su tutta la città le grandi macchine belliche, che s’incendiavano fracassandosi al suolo; ma precipitavano tra gli edifici e su strade e campi deserti. Esplosioni atomiche e convenzionali si susseguivano negli strati alti dell’atmosfera e Buck rimase lì in mezzo alle vampate di calore con la faccia arroventata e il corpo madido di sudore. Che diamine stava succedendo?
Poi iniziarono a cadere blocchi di ghiaccio e chicchi di grandine grossi come palle da golf, che lo costrinsero a riparare la testa sotto la giacca. Il suolo si scosse e rombò gettandolo a terra. A faccia in giù, tra i detriti gelati avvertiva il crepitio di una pioggia purificatrice. All’improvviso, l’unico suono percettibile giunse dal fuoco nel cielo, che iniziava a estinguersi man mano che procedeva verso il basso. Dopo dieci minuti di fragore tonante, le fiamme si spensero e guizzarono al suolo palle di fuoco. Il bagliore sparì altrettanto rapidamente di come era apparso. L’immobilità cadde su tutta la terra.
Mentre le volute di fumo si dissolvevano nella dolce brezza, il cielo notturno riacquistò la sua naturale tinta blu scuro e le stelle tornarono a brillare tranquille come se nulla fosse accaduto. Buck si voltò verso l’edificio, stringendo la giacca di pelle inzaccherata. La maniglia della porta era ancora calda e all’interno gli ufficiali piangevano e rabbrividivano. La radio ancora funzionante trasmetteva i rapporti dei piloti israeliani: non erano riusciti ad alzarsi in volo in tempo e non avevano potuto far altro che assistere all’apparente autodistruzione della flotta aerea russa.
Miracolosamente non si registravano perdite in tutta Israele. In circostanze diverse, Buck avrebbe potuto pensare a una qualche inspiegabile avaria che avesse spinto i missili e gli aerei a distruggersi l’un l’altro. Ma i testimoni parlavano di una tempesta di fuoco che, con la pioggia, la grandine e il terremoto, aveva annientato l’offensiva.
Era stata una caduta di meteoriti stabilita per decreto divino? Forse. Ma che cosa giustificava le migliaia e migliaia di frammenti d’acciaio roventi, contorti o fusi scagliati nel suolo di Haifa, Gerusalemme, Tel Aviv, Gerico e persino di Betlemme, che avevano spianato le antiche mura senza scalfire minimamente una sola creatura vivente. La luce del giorno rivelò la carneficina e smascherò l’alleanza segreta della Russia con le nazioni del Medio Oriente, in primo luogo la Libia, e con l’Etiopia.
Tra le rovine gli israeliani rinvennero materiale combustibile utilizzabile come carburante che avrebbe preservato le loro riserve naturali per più di sei anni. Speciali unità operative rivaleggiavano con gli avvoltoi e le poiane per le spoglie dei nemici morti, cercando di sotterrarle prima che ne venissero spolpate le ossa, prima che le malattie divenissero una minaccia per il paese.
I ricordi di Buck erano vividi, come se fosse stato ieri. Se non fosse stato lì e non avesse visto con i suoi occhi, sarebbe rimasto incredulo. E dovette tirar fuori il meglio di sé per indurre i lettori del Global Weekly a crederci anche loro.
I direttori dei giornali e i lettori avevano una loro spiegazione per il fenomeno, ma Buck dovette ammettere, se non altro con se stesso, che da quel giorno era diventato credente. Gli esegeti ebraici sottolinearono i passi della Bibbia che riportavano la distruzione dei nemici d’Israele da parte di Dio per mezzo di tempeste di fuoco, terremoti, grandine e pioggia. Buck rimase attonito quando lesse i capitoli 38 e 39 di Ezechiele su un grande nemico che dal nord invadeva Israele con l’aiuto della Persia, della Libia e dell’Etiopia. Fatto ancor più sorprendente, le Scritture preannunciavano che le armi sarebbero state impiegate come combustibile e che i soldati nemici sarebbero stati divorati dai rapaci o seppelliti in fosse comuni.
Gli amici cristiani volevano che Buck facesse il passo successivo e credesse in Gesù Cristo, nel momento in cui si trovava chiaramente in consonanza spirituale con loro. Buck, tuttavia, non era preparato per spingersi oltre, ma per certo era diventato una persona diversa, un giornalista diverso: per lui, nulla era più inverosimile.

***

Incerto se dichiararsi o meno, il comandante Rayford Steele provava un impulso irresistibile a vedere subito Hattie Durham. Si slacciò la cintura di sicurezza e strinse la spalla del suo primo ufficiale nell’uscire dalla cabina. «Siamo ancora in automatico, Christopher», disse mentre il giovanotto si alzava sistemandosi la cuffia. «Vado a fare la mia passeggiata mattutina.»
Christopher socchiuse gli occhi e si umettò le labbra. «Non mi pare l’alba, capo».
«Forse fra un’ora o due. In ogni modo, voglio vedere se c’è qualcuno sveglio».
«Ricevuto. Se sono svegli, digli che Chris gli manda a dire… ehi!»
Rayford sbuffò e annuì. Mentre apriva il portello della cabina, Hattie Durham per poco non lo investì.
«Non c’è bisogno di bussare», disse lui, «arrivo».
L’assistente di volo lo spinse nell’andito, ma non c’era passione nel suo tocco. Le dita di lei sembravano artigli sul suo avambraccio; la donna rabbrividì nel buio.
«Hattie…»
Lei lo spinse indietro verso gli scomparti della cucina, avvicinando il viso alla sua faccia. Se non fosse stata visibilmente scossa, forse lui l’avrebbe gradito e avrebbe ricambiato l’abbraccio. Le si piegavano le ginocchia mentre cercava di parlare; la voce di lei gli giunse come un gemito stridulo.
«Mancano delle persone», riuscì a mormorare in un sussurro, seppellendo la testa nel petto di lui.
Rayford la afferrò per le spalle cercando di allontanarla, ma lei si dibatté per rimanergli vicina. «Che vuoi di…?»
Singhiozzava ora, aveva perso il controllo. «Un’intera comitiva, spariti!»
«Hattie, questo è un grande aereo. Saranno andati alla toilette oppure…»
Gli tirò giù la testa dimodoché potesse parlargli direttamente nell’orecchio. Nonostante piangesse, stava chiaramente sforzandosi di farsi capire. «Sono stata dappertutto. Te lo ripeto, mancano decine di persone».
«Hattie è ancora buio. Le troveremo…»
«Non sono matta! Controlla pure! Quelle persone sono sparite su tutto l’aereo.»
«è uno scherzo. Si sono nascosti, stanno cercando di…»
«Ray, le loro scarpe, i calzini, i vestiti, tutto è rimasto al suo posto. Quelli sono spariti!»
Hattie scivolò via dalla sua stretta e si inginocchiò a piagnucolare in un angolino. Rayford voleva consolarla, ottenere il suo aiuto o indurre Chris a seguirlo per ispezionare l’aereo da cima a fondo. Più di tutto aveva bisogno di credere che la donna fosse impazzita. Aveva di meglio da fare che menarlo per il naso; era ovvio che credeva veramente che le persone fossero sparite.
Nella cabina aveva vissuto un sogno ad occhi aperti. Ma era sveglio ora? Si morse le labbra e sussultò per il dolore. Era del tutto sveglio. Entrò in prima classe, dove un’anziana signora sedeva attonita in preda al torpore antelucano, stringendo tra le mani il golf e i pantaloni del marito. «Che accidenti…?», bofonchiava. «Harold!?»
Rayford passò in rassegna il resto della prima classe. Gran parte dei passeggeri ancora dormiva, incluso un giovanotto accanto al finestrino; il suo portatile era abbandonato sul ripiano. Diversi posti, tuttavia, erano vuoti. Una volta che i suoi occhi si furono abituati alla luce fioca, Rayford si precipitò verso la scala. Fece per scendere, ma la donna lo chiamò.
«Signore, mio marito…»
Rayford portò un dito alle labbra mormorando: «Lo so. Lo troveremo. Tornerà presto».
Che sciocchezza! pensò fra sé mentre scendeva, accortosi che Hattie era giusto dietro di lui. Lo troveremo?
Hattie lo afferrò per la spalla rallentandone la corsa. «Devo accendere le luci della cabina dei passeggeri»
«No», mormorò. «Meno ne sanno meglio è.»
Rayford aveva bisogno d’essere forte, di avere delle risposte, di essere d’esempio all’equipaggio e a Hattie. Ma quando raggiunse il piano inferiore ebbe la netta sensazione che il resto del volo sarebbe stato caotico. Era terrorizzato come chiunque altro a bordo. Nell’esaminare i posti a sedere venne quasi colto da una crisi di panico. Indietreggiò verso un punto appartato dietro la paratia e si tirò uno schiaffone in faccia.
Non era uno scherzo, non era un trucco né un sogno. Qualcosa era andato terribilmente storto e non c’era modo di venirne a capo. Ci sarebbero state già abbastanza paura e confusione perché perdesse il controllo. Non era preparato a un fatto del genere, eppure tutti quanti avrebbero guardato a lui. E allora? Che cosa avrebbe dovuto fare?
Prima un tale, poi un altro si misero a strillare quando si resero conto che i loro compagni erano spariti e che gli abiti erano rimasti lì. Gridarono, urlarono, si alzarono dai sedili. Hattie afferrò Rayford da dietro le spalle e posando le mani sul petto di lui lo avvolse in una morsa talmente ferrea che Rayford riusciva a malapena a respirare. «Rayford, che succede?»
Lui si liberò dalla stretta voltandosi verso di lei. «Hattie, ascolta, ne so quanto te. Ma dobbiamo calmare questa gente prima di atterrare. Farò un annuncio qualsiasi, tu e gli altri dovete trattenere i passeggeri ai loro posti, OK?»
Lei annuì, ma aveva un’aria tutt’altro che OK. Come lui la superò passandole accanto per precipitarsi alla cabina di comando, la udì urlare. Tanto per calmare i passeggeri, pensò mentre si voltava scorgendola inginocchiata nel corridoio. Sbandierava un blazer, una camicia e una cravatta ancora intatte. I pantaloni erano ai suoi piedi. Hattie freneticamente rigirò la giacca verso la luce fioca e lesse il cartellino di identificazione. «Tony!», gemette. «Tony non c’è più».
Rayford afferrò gli abiti e li lanciò dietro la paratia. Sollevò Hattie per i gomiti e la trascinò lontano da occhi indiscreti. «Hattie, mancano ore all’atterraggio. Non possiamo permetterci il lusso di ritrovarci con un’orda di passeggeri in preda a una crisi isterica. Farò un annuncio, ma tu devi rimanere al tuo posto. Ce la fai?»
Lei annuì con lo sguardo assente. Lui la obbligò a fissarlo. «Ce la farai?» le chiese.
Lei annuì ancora. «Rayford, moriremo?»
«No», fece lui, «ne sono sicuro.»
Ma non era sicuro di nulla. Come avrebbe potuto saperlo? Avrebbe preferito avere un motore in fiamme, magari cadere in una picchiata incontrollata. Un disastro nell’oceano sarebbe stato preferibile. Come avrebbe potuto mantenere calmi i viaggiatori in un incubo del genere?
In quel momento, le luci spente nella cabina passeggeri facevano più male che bene e Rayford fu felice di assegnare a Hattie un compito specifico. «Non so che cosa dirò», disse, «ma accendi la luce così saremo in grado di verificare chi c’è e chi è sparito, poi prendi un po’ di quei moduli per turisti stranieri».
«Perché?»
«Fallo e basta. Tienili pronti.»
Rayford non sapeva se aveva fatto la cosa giusta lasciando ad Hattie la responsabilità dei passeggeri e dell’equipaggio. Nel momento in cui si fiondò sulle scale si avvide di un altro assistente di volo che indietreggiava urlando per l’andito. Al momento il povero Christopher, rimasto nella cabina di comando, era l’unico a ignorare l’accaduto. Peggio, Rayford aveva detto ad Hattie di ignorare quanto lei che cosa stava accadendo.
La terribile verità era che lo sapeva fin troppo bene. Irene aveva ragione: lui e gran parte dei passeggeri erano stati esclusi.

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