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Questo mondo di tenebre

Questo mondo di tenebre

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Best seller negli USA. Un bellissimo romanzo sulla battaglia spirituale e sui pericoli della New Age. Ottimo anche come regalo. Ashton è solo una tipica, tranquilla cittadina universitaria. Ma quando un giornalista scettico e un pastore dedito alla preghiera cominciano a confrontare le informazioni in loro possesso, si ritrovano all'improvviso a combattere contro una orribile cospirazione New Age il cui scopo è di soggiogare gli abitanti della città e infine l'intera razza umana. Il libro descrive il combattimento spirituale e la necessità della preghiera con l'intensità e l'ispirazione dimostrati da Frank Peretti in queste pagine. "Questo mondo di tenebre" è una lettura elettrizzante che non potrete abbandonare prima di essere giunti all'ultima pagina, una storia piena di colpi di scena al livello dei migliori romanzi d'azione reperibili oggi in libreria.
ISBN: 9788880771166
Produttore:
Editrice Uomini Nuovi
Codice prodotto: 9788880771166
Lingua: Italiano

Capitolo gratuito

Capitolo 1

Era una tarda notte domenicale di luna piena, quando le due figure in abiti da lavoro apparvero sulla statale 27, nella zona periferica della piccola cittadina universitaria di Ashton. Erano alti almeno due metri, di forte costituzione fisica, perfettamente proporzionati. Uno aveva i capelli scuri e i lineamenti particolarmente marcati, l’altro era biondo e poderoso. Osservavano la città da circa un chilometro di distanza, ascoltando i vivaci rumori cacofonici che provenivano dai negozi, dalle strade e dai viali. Si avviarono.
Era il periodo della fiera estiva di Ashton, l’appuntamento annuale della cittadina con frivolezze e caos, un modo per dire “grazie”, “tornate presto”, “buona fortuna”, “è bello avervi qui”, a circa ottocento studenti del Whitmore College, i quali stavano per iniziare le loro tanto attese vacanze estive. La maggior parte dei collegiali impacchettava tutto e tornava a casa, ma restavano sicuramente tutti almeno il tempo necessario per prendere parte ai festeggiamenti, ai balli in strada, ai giri sulle giostre, alla visione dei filmini e a tutti gli altri tipi di divertimenti immaginabili e possibili. Era un momento folle, l’occasione per ubriacarsi, restare gravide, fare a botte, essere derubati, sentirsi male, tutto nella stessa nottata.
Un proprietario terriero, devoto alla comunità, aveva messo a disposizione un lotto libero situato proprio al centro della cittadina, dando il permesso a un gruppo di viaggiatori intraprendenti di innalzare il loro tendone con giostre, baracconi e bagni pubblici. Le giostre si apprezzavano maggiormente al buio, un’insieme di avventure illuminate color ruggine, il cui rumore assordante sembrava competere con un’ondeggiante musica carnevalesca che prorompeva con forza da chissà dove. Ma in quella calda notte d’estate tutti, instancabili e un po’ sognatori, andavano in giro con lo scopo di divertirsi a più non posso. Una ruota panoramica girava lentamente, esitava il tempo necessario per far salire le persone, girava un po’ per farne scendere delle altre, e infine compiva un paio di rotazioni perché la gente fosse in qualche modo ripagata dei soldi spesi; un carosello girava ostentando un cerchio di vivaci colori, i cavalli ormai malandati e smembrati galoppavano al suono della musica; la gente si divertiva lungo il viale centrale della fiera, costruito frettolosamente e in malo modo, dove persone rapaci esortavano tutti i passanti a provare la fortuna tirando palle nei canestri, monetine nei posacenere, dardi ai palloncini e soldi al vento.
I due imponenti visitatori osservavano silenziosi tutta quella baraonda, chiedendosi come facesse una cittadina di dodicimila persone, studenti universitari inclusi, a produrre una folla talmente vasta e abbondante. La popolazione, solitamente tranquilla, era affluita in massa ampliata da stranieri in cerca di svago fino a intasare completamente strade, taverne, negozi, viali, parcheggi; tutto era permesso e l’illecito ignorato. Certo, la polizia aveva le mani piene di teppisti, vandali, ubriachi, ladri, ma ciascuno di questi rappresentava almeno un’altra dozzina ancora in libertà e vagante per la cittadina. La festa aveva raggiunto l’apice in quella che era la sua ultima notte e ormai era simile a una terribile tempesta impossibile da fermare; si poteva solo aspettare che finisse, e dopo ci sarebbe stato un bel po’ da ripulire.
I due visitatori si fecero lentamente strada tra la marea di gente, ascoltandone le conversazioni, osservandone i movimenti. Erano incuriositi da quella cittadina, quindi presero tutto il tempo necessario per scrutare da una parte all’altra, a destra, a sinistra, davanti e dietro. La calca pressante volteggiava intorno a loro come abiti in una lavatrice, vagando da un lato all’altro della strada in un ciclo imprevedibile e inesauribile. I due uomini di alta statura continuavano a scrutare la folla.
Stavano cercando qualcuno.
“Da quella parte”, disse l’uomo dai capelli scuri.
L’avevano vista entrambi. Era giovane, molto bella, piuttosto agitata, dall’aria risoluta e si guardava intorno con in mano una macchina fotografica.
I due uomini si affrettarono tra la folla e si misero al suo fianco. Lei non li notò.
“Sai”, le disse quello dai capelli scuri, “potresti provare a guardare da quella parte”. Dopo aver detto quelle semplici parole, le appoggiò una mano sulla spalla e la guidò verso il viale centrale a un padiglione ben preciso. Camminando sull’erba e tra carte di caramelle, si avvicinò al posto che le era stato indicato dove alcuni giovani si stavano divertendo scoppiando palloncini con i dardi. Non era affatto interessata alla scena, ma a un certo punto… intravide delle ombre che si muovevano furtivamente dietro al padiglione. Aveva la macchina fotografica in mano, pronta a usarla, e dopo aver fatto qualche altro passo in silenzio e con estrema prudenza, la portò velocemente all’occhio.
La luce emessa dal flash illuminò gli alberi che erano dietro al padiglione mentre i due uomini si dirigevano velocemente all’appuntamento successivo.

Muovendosi agilmente e senza esitazione attraversarono la zona principale della cittadina a passo svelto. La loro destinazione finale era a un chilometro circa dal centro della città, tutta concentrata in Poplar Street, proseguendo per un altro mezzo chilometro su per la cima di Morgan Hill. Non avevano impiegato neanche un secondo per giungere alla piccola chiesetta bianca situata su una minuscola proprietà, con un bel prato ordinato e un elegante cartello con gli orari delle varie funzioni domenicali.
Sulla parte superiore del piccolo affisso si leggeva: “Chiesa della Ashton Community” e in caratteri neri era stato sostituito disordinatamente il nome del pastore precedente con la scritta: “Henry L. Busche, Pastore”.
Si guardarono alle spalle. Da quell’alta collina era possibile vedere l’intera città da un confine all’altro. A ovest brillava la fiera nei suoi sfavillanti colori; a est si innalzava bello e imponente il campus del Whitmore College; lungo la statale 27, la strada principale che attraversava la città, c’erano uffici, grandi magazzini, un paio di benzinai in concorrenza tra loro, una bottega di ferramenta, il giornale locale, un paio di negozi a gestione familiare. Da qui la cittadina sembrava così tipicamente americana, piccola, innocente e indifesa, proprio come lo sfondo dei dipinti di Norman Rockwell.
Ma i due visitatori non percepivano soltanto con gli occhi. Perfino da quel punto così vantaggioso la vera natura di Ashton pesava incredibilmente sui loro spiriti e sulle loro menti. La sentivano: un’essenza maligna instancabile, forte, crescente, studiata con proposito… di un genere molto particolare.
Era normale per loro interrogarsi e investigare su ciò che li circondava, studiare la situazione. Faceva tutto parte del loro lavoro. Quindi fu con estrema naturalezza che esitarono in questo loro compito fermandosi a riflettere. Perché proprio qui?
Ma solo per un istante. Sarà stata la loro spiccata sensibilità, o l’istinto, o una lieve sensazione da loro fortemente avvertita, ma fu sufficiente perché scomparissero istantaneamente dietro l’angolo della chiesa, appiattendosi contro il lato dell’edificio, quasi invisibili nel buio. Non parlavano e non si muovevano, ma scrutavano in modo penetrante un qualcosa che si avvicinava.
La scena notturna della strada silenziosa era un “collage” di chiaro di luna e ombre senza fondo. Ma un’ombra in particolare non ondeggiava al vento come quelle degli alberi, e neppure stava immobile come quelle degli edifici. L’ombra strisciava e tremava mentre percorreva la strada che conduceva alla chiesa, e qualsiasi luce incontrasse sembrava sprofondare nella sua oscurità, come se fosse stato un buco nello spazio. Ma quest’ombra aveva una forma, una sembianza di creatura animata e più si avvicinava alla chiesa più si potevano sentire dei suoni: il raschiare delle unghie sul terreno, il lieve sibilare della brezza tra le ali membranose che svolazzavano proprio al di sopra delle sue spalle.
Aveva braccia e gambe, ma sembrava muoversi senza il loro aiuto nell’attraversare la strada e nel salire le scale anteriori della chiesa. Gli occhi lascivi e bulbosi, con luccichio sprezzante, riflettevano l’inflessibile luce blu della luna piena. La testa deforme fuoriusciva dalle spalle gobbe, e sbuffi di un fetido alito rosso ribollivano in affannosi sibili tra file di zanne irregolari.
O rideva o tossiva, i sibili che fuoriuscivano dal profondo della gola sarebbero potuti essere entrambe le cose. Si sollevò da terra, dove fino a quel momento aveva strisciato, assumendo una posizione eretta e osservò i dintorni completamente immersi nella tranquillità contraendo la nera e dura mascella in un sogghigno repellente, una maschera di morte. L’essere si avvicinò alla porta d’ingresso. La mano nera la attraversò con la facilità di una lancia che attraversa l’acqua, e avanzando con una certa fatica riuscì a far penetrare anche il corpo, ma solo per metà.
Improvvisamente, come se si fosse scontrata contro un muro in movimento, la creatura fu respinta e si trovò a rotolare con violenza giù per le scale tracciando con lo sfolgorante alito rosso un sentiero a spirale nell’aria.
Con un grido da far rabbrividire, colmo d’ira e indignazione, si alzò dal marciapiede e fissò la strana porta che non gli permetteva di entrare. Poi le membrane sulla schiena cominciarono a fluttuare avviluppando grosse quantità d’aria, e gridando volò a capofitto verso la porta, la attraversò, ritrovandosi nell’atrio e in una nuvola di calda luce bianca.
La creatura gridò e si coprì gli occhi, poi si sentì presa nella morsa di un’enorme e potente mano. Un attimo dopo fendeva l’aria come una bambola di pezza ritrovandosi nuovamente all’esterno, espulsa forzatamente.
Le ali ronzavano in modo confuso mentre, virando tutta, si diresse nuovamente in volo verso la porta sbuffando dalle narici schizzi e nastri di vapori rossi, gli artigli scoperti pronti per l’attacco, uno strepito spettrale che le risaliva in gola. Come una freccia attraversa il bersaglio, un proiettile un pannello, così quell’essere attraversò la porta.
Nello stesso istante si sentì lacerare dentro.

Ci fu un’esplosione di vapore soffocante, un ultimo grido, un contorcersi di braccia e gambe in deperimento. Poi non ci fu assolutamente più nulla tranne un evanescente odore di zolfo, e i due stranieri, improvvisamente all’interno della chiesa.
Il grande uomo biondo ripose una spada lucente mentre la luce bianca che lo aveva circondato svaniva.
“Uno spirito di tormento?” chiese.
“O di dubbio... o di paura. Chi lo sa?”
“E quello era uno dei più piccoli?”
“Io non ne ho visti di più piccoli”.
“Infatti. E quanti pensi ce ne siano?”
“Molti, molti più di noi, e ovunque. Mai indolenti”.
“L’ho notato”, disse l’uomo grande sospirando.
“Ma che cosa ci fanno qui? Prima d’ora non abbiamo mai visto una tale concentrazione, non qui almeno”.
“Il motivo non resterà sconosciuto ancora per molto”. Guardò attraverso le porte dell’atrio verso il santuario.
“Andiamo a vedere quest’uomo di Dio”.
Si allontanarono dalla porta e attraversarono il piccolo ingresso. Sul cartello degli annunci appeso alla parete c’erano varie richieste: baby-sitter, cibo per una piccola famiglia bisognosa e preghiere per un missionario malato. Un grande affisso comunicava un incontro d’affari della congregazione fissato per il venerdì. Sull’altra parete, l’inventario delle offerte settimanali indicava che le donazioni erano diminuite rispetto alla settimana precedente; così come la frequenza, da sessantuno a quarantadue.
Si avviarono per la piccola e stretta navata, passando oltre le file ordinate di panche fatte di tavole e asticelle scure, verso la parte anteriore del santuario dove una piccola luce illuminava una rustica croce di mezzo metro per uno, appesa sopra il battistero. Al centro della piattaforma, rivestita di moquette consumata, c’era il piccolo piano sacrale, il pulpito, con sopra una Bibbia. Erano mobili modesti, funzionali, per niente elaborati, che rivelavano o l’umiltà o la negligenza della gente.
Poi un primo suono si aggiunse all’immagine: un pianto silenzioso e soffocato all’estremità della panca destra. Lì, in ginocchio, con la testa appoggiata sulla dura panca di legno, le mani congiunte con ardore, in fervida preghiera c’era un giovane uomo, molto giovane, pensò dapprima l’uomo biondo: giovane e vulnerabile. Lo si deduceva dall’aspetto che al momento era l’immagine stessa del dolore, della sofferenza e dell’amore. Le sue labbra si muovevano senza emettere alcun suono mentre nomi, suppliche e lodi fuoriuscivano con passione e lacrime.
I due non potettero fare a meno di stare lì per un attimo a guardare, studiare, ponderare.
“Il piccolo guerriero”, disse quello dai capelli scuri.
Quello grande e biondo, guardando in basso verso l’uomo contrito in preghiera, formulò le proprie parole in silenzio. “Sì”, osservò, “è lui. Anche adesso, stando davanti al Signore, sta intercedendo per il bene della gente, per la cittadina...”
“Quasi tutte le sere è qui”.
A quella affermazione l’uomo grande sorrise. “Non è poi tanto insignificante”.
“Ma è l’unico. è solo”.
“No”. L’uomo grande scosse la testa. “Ci sono altri. Ci sono sempre degli altri. Devono solo essere trovati. Per ora, la sua singola e vigile preghiera è l’inizio”.
“Sarà ferito, lo sai”.
“Così come il giornalista. E come noi”.
“Ma vinceremo?” Gli occhi del grande uomo sembravano bruciare di un fuoco riacceso.
“Combatteremo”.
“Combatteremo”, assentì l’amico.
Rimasero in piedi su entrambi i lati del guerriero inginocchiato; e da quell’istante, gradualmente, come il germogliare di un fiore, una luce bianca iniziò a riempire la stanza. Illuminò la croce sulla parete retrostante, mise lentamente in evidenza i colori e ogni piccolo particolare di tutte le tavole di ciascuna panca, aumentando sempre più di intensità, fino a quando il santuario, una volta semplice e umile, si ravvivò di una bellezza celestiale. Le pareti brillavano, i tappeti consunti risplendevano, il piccolo pulpito era alto e imponente, come una sentinella illuminata alle spalle dal sole.
Ora i due uomini erano di un bianco splendente, il loro abbigliamento usuale si era trasformato in abiti che sembravano bruciare intensamente. I volti erano bronzei e luminosi, gli occhi scintillavano come il fuoco, e ciascun uomo indossava una folgorante cintura d’oro da cui pendeva una spada. Misero le mani sulle spalle del giovane uomo e poi, come un baldacchino spiegato con grazia, membrane simili alla seta, splendenti, quasi trasparenti, si spiegarono dalle loro schiene e dalle spalle, innalzandosi fino a incontrarsi e sovrapporsi al di sopra delle loro teste, ondulando gentilmente in una lieve brezza spirituale.
Insieme trasmisero pace al loro giovane protetto e le sue molte lacrime cominciarono a diminuire.

L’Ashton Clarion era un giornale di un paesino di campagna; era piccolo e curioso, forse un po’ disorganizzato a volte, con poche pretese. In altre parole era la stessa cittadina di Ashton sotto forma stampata. L’ufficio della redazione si trovava al centro della città in Main Street, ma occupava solo un piccolo spazio, giusto un pianerottolo; era contraddistinto da una grande vetrata attraverso cui si poteva vedere un po’ di tutto, e da una porta un po’ rovinata dai colpi di piedi, con un’apposita fessura per la posta. Il giornale usciva due volte la settimana, il martedì e il venerdì, e non produceva grosse entrate. Dall’aspetto generale dell’ufficio e dei macchinari si poteva ben capire che era un’impresa a basso profitto.
Nella parte anteriore della costruzione si trovava la zona ufficio e raccolta notizie. C’erano tre scrivanie, due macchine da scrivere, due pattumiere, due telefoni, una macchina del caffè senza filo, appunti, carte, fogli sparsi un po’ ovunque, insomma il classico disordine che si può trovare in ufficio. Un vecchio bancone di una stazione ferroviaria demolita era posto al centro della stanza come divisorio tra la zona ufficio e la sala d’attesa, e naturalmente sopra la porta d’ingresso c’era un piccolo campanello che tintinnava ogni volta che entrava qualcuno.
Verso il retro della labirintica e piccola attività c’era una zona quasi lussuosa, all’apparenza un po’ troppo grande per il luogo in questione: era l’ufficio vetrato del direttore. Una nuova aggiunta. Il nuovo direttore e proprietario era un reporter della grande città e avere un ufficio vetrato era sempre stato il sogno della sua vita.
Il nuovo arrivato era Marshall Hogan, un uomo forte, di grande corporatura, e sempre di fretta, in un viavai frenetico; il suo staff, costituito da un dattilografo, una segretaria/reporter/agente pubblicitario e una reporter/articolista, lo chiamava affettuosamente “Attila l’Hogan”. Aveva acquistato il giornale da un paio di mesi e il contrasto tra l’eleganza della grande città e la semplicità di quella piccola, causava ancora sporadiche discussioni. Marshall voleva un giornale di qualità, uno che funzionasse con efficienza e senza problemi, che rispettasse le scadenze, che avesse un posto per tutto e tutto al suo posto. Ma il passaggio dal New York Times all’Ashton Clarion era stato come saltare giù da un treno in corsa per scontrarsi contro un muro di gelatina. Le cose non funzionavano abbastanza velocemente in quell’ufficio, e la grande efficienza a cui Marshall era abituato aveva dovuto cedere il posto a certe stramberie dell’Ashton Clarion, come il conservare i fondi del caffè perché la segretaria li usava come concime, o come il consegnare una tanto attesa storia di cronaca con sopra i bisognini dei pappagalli.
Il lunedì mattina il traffico era caotico e non c’era tempo per riprendersi da sbornie di fine settimana. L’intero staff stava frettolosamente portando a termine l’edizione del martedì, sopportando la fatica del lavoro, spostandosi in fretta dalle scrivanie sul davanti alla stanza dell’impaginazione sul retro, stringendosi l’uno all’altro per poter passare attraverso lo stretto spazio a disposizione, portando brutte copie di articoli e pubblicità al compositore, prendendo bozze in colonna già composte e fotografie di varie forme e dimensioni che avrebbero ravvivato le pagine del giornale.
Nel retro, tra luci intense, tavoli da lavoro in disordine e corpi in rapido movimento, Marshall e Tom, l’impaginatore, erano chini su un grande telaio simile a una panchina, componendo il Clarion del martedì mettendo insieme pezzi e pezzettini che sembravano essere sparsi un po’ ovunque. Questo va qui, questo no, quindi dobbiamo metterlo da qualche altra parte, questo è troppo grande, che usiamo per riempire questo spazio? Marshall si stava imbronciando. Si imbronciava tutti i lunedì e i giovedì.
“Edie!” gridò, e la segretaria rispose: “Arrivo”, mentre lui le diceva per l’ennesima volta: “Le bozze vanno nei contenitori sopra il tavolo, non sul tavolo, né per terra, né sul...”
“Non ho messo nessuna delle bozze per terra!”, protestò Edie entrando in fretta nella stanza dell’impaginazione con altre bozze in mano. Era una piccola donna cocciuta di quarant’anni, con la giusta personalità per imporsi sul rude carattere di Marshall. Sapeva meglio di chiunque altro dove trovare le varie cose in ufficio, soprattutto meglio del suo nuovo capo. “Le ho messe nei tuoi bei contenitori, proprio come vuoi tu”.
“Allora dimmi, come ci sono arrivate queste sul pavimento?”
“Il vento, Marshall, e non mi costringere a dirti da dove è venuto quello!”
“A posto, Marshall”, disse Tom, “questo sistema le pagine tre, quattro, sei, sette... ma le pagine uno e due? Che ci facciamo con tutti questi spazi vuoti?”
“Dobbiamo metterci l’articolo di Bernie sulla fiera, scritto in modo ingegnoso, con fotografie di drammatico interesse umano, tutto quanto insomma, non appena si degna di arrivare e consegnarcelo! Edie!”
“Eh?”
“Bernie è in ritardo di un’ora, per la miseria! La chiami di nuovo?”
“L’ho appena fatto. Nessuna risposta”.
“Accidenti”.
George, il piccolo dattilografo in pensione che lavorava ancora per puro divertimento, allontanò la sedia dalla compositrice con una breve rotazione e propose: “Che ne dici del barbecue della sezione femminile? Lo sto giusto finendo e la fotografia della signora Marmaselle è abbastanza piccante per far scattare una querela”.
“Sì”, mormorò Marshall, “e in prima pagina, tra l’altro. è proprio l’ultima cosa che mi ci vuole adesso”.
“E allora?” domandò Edie.
“Ci è andato nessuno alla fiera?”
“Sono andato a pesca”, rispose George. “La fiera è troppo bizzarra per me”.
“Mia moglie non me lo ha permesso”, disse Tom.
“Io un po’ ci sono stata”, concluse Edie.
“Inizia a scrivere”, ordinò Marshall. “è il più grande ritrovo dell’anno e dobbiamo scriverci qualcosa”.
Squillò il telefono.
“Salvati dal campanello?” chiese Edie con voce stridula, mentre alzava il ricevitore nella stanza sul retro.
“Buongiorno, il Clarion”. Improvvisamente sembrò illuminarsi. “Ehi, Bernice! Dove sei?”
“Dov’è?” chiese Marshall allo stesso tempo.
Mentre Edie ascoltava, il suo volto si riempì di orrore. “Sì... be’, calmati, adesso... sicuro... non ti preoccupare, ti tireremo fuori”.
Marshall sbottò “Dove diavolo è?”
Edie lo guardò con rimprovero e rispose. “In prigione”.

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