Capitolo gratuito
Prologo
Una sola candela diffonde una luce flebile. La fiamma illumina a malapena le tenebre. Dopo la chiusura della porta del container le candele si spengono sempre entro due ore per mancanza di ossigeno. Fra poco la candela si spegnerà.
La donna dietro di me si gira nel sonno e spinge le sue ginocchia contro la mia schiena. Mi fa male. Cerco di spostarmi e di darle un po’ più di spazio, ma mi trovo già attaccata a un’altra detenuta che dorme. Tiro su la mia coperta e con essa cerco di avvolgermi il più possibile. Malgrado si sia in molti ammassati qui dentro, fa terribilmente freddo. Dal soffitto cadono gocce di umidità condensata. Una mi cade sulla guancia e mentre inumidisce le mie labbra sento il sapore della ruggine. L’atmosfera è molto densa a causa della puzza di metallo arrugginito, del fetore penetrante del secchio là nell’angolo e dell’odore di corpi non lavati e stretti l’uno contro l’altro.
Mi guardo intorno e cerco di scoprire dove si trovi quella donna impazzita. C’è un’ombra oscura vicino alla finestrella che è stata ricavata tagliando rozzamente un foro in un lato del container. Mi contraggo. A volte quella povera donna tappa l’apertura infilandoci la sua coperta, impedendoci di ricevere così anche quel po’ di aria fresca che ci manca. Certe notti grida, piange e urta così forte contro la parete che il container rimbomba e nessuno di noi riesce più a dormire. Ora che siamo di più le sue condizioni si stanno aggravando. Siamo in diciannove a occupare uno spazio nel quale solo diciotto persone possono sdraiarsi per dormire. Stanotte lei è tranquilla, ma io mi sento irrequieta.
Sono stanchissima, perciò costringo il mio corpo a rilassarsi sul duro fondo del container. A un tratto la candela si spegne. Chiudo gli occhi e penso a mia figlia: “Signore, proteggila”.
Il fondo scricchiola. Qualcuno deve essersi alzato per farsi strada verso il secchio che usiamo come gabinetto, inciampando in qualcun’altro che dorme. Cerco di non far caso al rumore. A un tratto, senza alcun preavviso, due mani si chiudono intorno al mio collo come una morsa. I miei occhi si spalancano, ma il buio è troppo fitto per poter distinguere qualcosa. Allora sento un urlo e capisco che la donna impazzita mi ha aggredita. Le sue dita premono sulla mia gola. Cerco di alzarmi ma non trovo il fiato per gridare e sono troppo debole per liberarmi dalla sua presa. Perciò faccio l’unica cosa che posso ancora fare: batto con la mano libera contro la parete del container e scalcio come posso intorno a me. Tutte le prigioniere vicine a noi si svegliano. Una di loro cerca di liberarmi dalle grinfie della donna, ma lei mi preme con forza una mano sulla gola e con l’altra cerca di strapparmi i capelli. Faccio un respiro profondo e veloce e riesco a lanciare un urlo. Anche
le altre prigioniere cominciano a urlare e a battere i pugni contro le pareti del container. A quel punto sentiamo gridare da fuori e il rumore di passi veloci. I chiavistelli si aprono stridendo, la porta viene spalancata e l’aria fredda invade il container.
I miei occhi bruciano quando la luce abbagliante di una torcia tascabile colpisce il mio volto. Poi una guardia strappa la donna sopra di me e comincia a bastonarla sulla testa e sul corpo. Mi accascio a terra e cerco di riprendere fiato. Le guardie trascinano la donna fuori del container e richiudono la porta con un boato. Le altre donne si stringono velocemente intorno alla finestrella, che, però, è talmente piccola che solo una alla volta riesce a guardare fuori. Chi ci è riuscita sussurra: “La picchiano”. Parla a bassa voce per non irritare le guardie, perché a loro non piace che guardiamo fuori. Poi sbircia ancora e ci aggiorna: “L’hanno legata”. Gli altri si sdraiano nuovamente, vinti dal desiderio di beneficiare di alcune ore di sonno prima che tornino le guardie pronte a farci marciare verso il campo dove dovremo fare i nostri bisogni.
Anch’io mi corico, ma ho la sensazione che la mia testa sia in fiamme. So che non riuscirò più a dormire stanotte. A volte non riesco a credere che questa sia realmente la mia vita: quattro pareti metalliche, entro le quali siamo stipate e rinchiuse come bestie, soffrendo dolori, fame e paura. E tutto ciò a motivo della mia fede nel Signore risorto, che mi chiede di condividere quella fede con coloro che non Lo conoscono ancora. Un Signore che non mi è permesso adorare. Penso alla domanda che mi è stata posta molte volte durante questi mesi di prigionia: “Helen, vale la pena soffrire tutto questo per la tua fede?”. Mentre respiro profondamente l’aria viziata, la mia testa brucia, la povera squilibrata là fuori farnetica e le guardie fanno la loro ronda, io, decisa, sussurro la risposta: “Sì, certamente. Ne vale la pena”.